sabato 11 febbraio 2023

RITORNI 4.3

Una mattina, al risveglio, c’era sull’erba una brina leggera, una nebbia sottile e vaporosa che mi spinse ad aprire il baule sotto la finestra. Era pieno di doppifondi, sorrisi mentre li aprivo, seguendo antichi rituali che spostavano i listelli a incastro a scomparsa. Non mi ero mai chiesta come potesse contenere così tanti oggetti, era come se lo spazio potesse contrarsi. C’erano tre faretre, una da portare alla cinta, una sulla schiena. La terza, da agganciare alla sella del cavallo, aveva anche uno spazio per l’arco. Il Giocatore mi raggiunse, lo sguardo pensoso, mentre io ero eccitata nell’osservare questi oggetti ritrovati, che erano sempre lì, sempre pronti. Gli raccontai come le avevo ottenute, gli mostrai il segno che il Maestro aveva inciso, come protezione e sigillo. Una lingua antica e sconosciuta di cui non mi aveva mi aveva mostrato i significati. Non ero pronta, pensavo. Non era tempo, aveva detto lui. Il Giocatore attese che le emozioni si placassero, poi accese il fuoco, prese le mie mani e mi chiese: “Dov’è l’arco?” Dov’è l’arco... io non avevo mai avuto un arco, costruivo frecce, le portavo nelle mie faretre, mentre andavo nel mondo, le scambiavo con altri oggetti, barattando utilità e favori. A volte le lanciavo per testarne la velocità, le cedevo agli arcieri che ne avevano bisogno o le regalavo a chi non ne possedeva. Il Maestro aveva un arco, flessibile, leggero, potentissimo. Assorbivo ogni piccolo suo gesto quando incoccava la freccia, distendeva le braccia, fissando –si sarebbe detto- l’invisibile. Poi il sibilo leggero, l’aria tagliata dal movimento preciso e rapido. Il bersaglio. Il Giocatore mi lasciò parlare, guardando come cambiavano le mie espressioni, facendo salire le emozioni, lasciando che si disperdessero, come la schiuma delle onde. Leggeva ogni respiro, decifrando le ombre dello sguardo, come nuvole di temporali che passavano in fretta. Uno dopo l’altro. Non disse nulla. Stimolò e accolse, attese che i pensieri si incatenassero, uno dopo l’altro, che le comprensioni accendessero barlumi negli occhi. Tacqui anch’io. Stanca, confusa, colpita, affrancata. Poi dissi, sgomenta. “Io non possiedo un arco. E non ho dei bersagli.” Il Giocatore soffiò sulla candela, perché io sapessi che lui non poteva vedere quell’unica lacrima che scese sulla mia guancia e si fermò sulle labbra, con il sapore del mare. Poi, il Giocatore la asciugò con la bocca. E fu notte. Pensieri e sogni si intrecciarono nel buio, interrogativi ai quali il sonno ristoratore avrebbe voluto trovare risposte. Io che non volevo usare l’arco, non volevo ferire, non avevo bersagli. Io che costruivo frecce per altri, o per comporre inaspettati mandala, o segnalare direzioni da seguire. All’alba, gli occhi sgranati a fissare la parete, capii che stavo solo giustificando una assenza. Stavo guardando indietro per dire che tutto andava bene e sarebbe continuato per sempre. Invece no, il percorso era tragicamente incompleto. Mancava l’arco. Mi mancava. Mi voltai verso il Giocatore, per raccontare, ma lui era partito. Senza dire, spiegare, avvisare. Ero rimasta sola.